La morte non va temuta
perchè quando ci siamo noi non c'é lei
e quando c'é lei non ci siamo noi .
Epicuro
L'Arcadia è oggi una regione agricola e pastorale della Grecia, al centro del Peloponneso, ma simbolicamente deve essere correttamente intesa
come un luogo ideale di vita amena, idillica e del tutto separata dalla realtà, come, appunto, nella favolosa e mitica regione greca dell'Arcadia.
Ed in questo luogo diviene, per il principio dell’armonia dei contrari, un topos artistico letterario il tema della morte, a partire dal Seicento
per poi permeare tutto il Settecento. E’ un papa ad inventare la figura simbolica, Giuseppe Rospigliosi, prima di diventare Clemente IX, ed è il
pittore Guercino il primo a trattarne.
In un paesaggio agreste e montuoso, sotto un cielo ancora notturno ma in cui si comincia a scorgere
il chiarore che precede l'alba, due personaggi, di cui sono visibili solo i busti, appoggiandosi a bastoni di diversa lunghezza scrutano meditabondi
il simbolo per eccellenza della morte corporale:
l'uno è più giovane, imberbe, a capo scoperto e vestito di una tunica bianca mentre l'altro è
più anziano, barbuto, ed ha il capo coperto da un voluminoso berretto, rosso come la tunica che lo riveste e della quale si scorge in alcuni punti
il risvolto bianco. Di fronte ad essi sta uno spezzone di muro diroccato che sorregge un grande teschio sulla cui calotta cranica è posato
un moscone, mentre un topo si trova a contatto del lato destro della mascella. Su un alberello sovrastante e biforcuto, dal ramo superiore
verde e dall'inferiore secco, sta un uccellino semiaddormentato. Nella parte frontale del pezzo di muratura, campeggia in maiuscole latine la
famosa scritta “Et in Arcadia Ego”, anch’ io sono in Arcadia, una frase che funge da ricordo della morte come per i frati il ricordati che devi
morire. Il quadro in questione è un olio su tela, eseguito pare intorno al 1618 dopo una breve visita dell'autore a Venezia, ed è oggi alla Galleria
Nazionale D'Arte Antica di Palazzo Corsini in Roma. Perfettamente in linea con l’impostazione di Virgilio nelle Georgiche e nelle Bucoliche, i
pittori ed i letterati del periodo concepirono l’Arcadia come rifugio nostalgico ove sarebbe ancora possibile il ritorno della mitica Età dell’Oro.
In questo contesto nasce il capolavoro del tema simbolico dell’Arcadia, con lo stesso titolo dell’opera del Guercino, “Et in Arcadia Ego”, dipinto
tra il 1657 ed il 1659 da Poisson, conservato al Louvre di Parigi il quadro che col tempo genererà da solo una leggenda ed un genere letterario.
Il pittore trasforma quello che era nel Guercino uno spezzone di muro in un vero e proprio sarcofago monumentale, sul quale sono immersi in profonda
meditazione tre pastori, e non due come fa il Guercino, due giovani ed uno in età matura. Ad essi si aggiunge una donna, vestita secondo il modo
della Grecia antica, che appare come nell’atto di svelare un enigma, forse il significato della frase incisa sul muro. L’ombra sul sarcofago di
uno dei due giovani è un segno di vita, solo i morti e gli dei non hanno ombra è scritto nel Libro dei Morti degli antichi Egizi, come un segno
di vita è la sparizione, rispetto al quadro del Guercino, del teschio. Sparisce quindi, tranne il sarcofago che non è di immediata evocazione
del significato in oggetto, il simbolismo ed il richiamo esplicito della morte.
Ma allora come si può spiegare il senso del tema simbolico,
tanto nella rappresentazione del Guercino che in quella di Poisson e quale può essere la giusta interpretazione della frase “Et in Arcadia Ego”?
Se si vuole seguire un percorso grammaticale, e cioè l’interpretazione anagrammatica di un’altra frase nascosta, ci si allinea con quanti,
appassionati di occultismo hanno fatto il successo dell’ipotesi formulata per la prima volta nel best-seller Il santo Graal di Baigent,
Leigh e Lincoln e cioè credere che essa contenga un riferimento al fatto che Gesù Cristo sia sopravvissuto alla crocefissione per morire poi
di morte naturale e venir sepolto da qualche parte nel Sud della Francia. Il successo di tale teoria ha scatenato nelle pacifiche campagne
circostanti la cittadina francese di Rennes-le-Château una caccia al tesoro inutile e vana, ma ancora oggi ben lontana dalla fine. Così il
parto anagrammatico è stato "I, TEGO ARCANA DEI", Vattene, custodisco i segreti di Dio.
Naturalmente a nulla vale per costoro che il risultato
sia più oscuro della frase di partenza! Occorre riportare quindi il nostro esame in confini più aderenti alla realtà e non alle chimere. Siamo
nella prima metà del '600 e quindi ancora nell’età d’oro dell’alchimia, praticata a tutti i livelli sociali. Scienziati, principi, monaci, preti
e porporati, studiosi di scienze naturali, ciarlatani e illusi si davano a questo genere di ricerche e pubblicavano testi a riguardo. Nelle corti
dell'imperatore d’Austria e dei re di Francia, alla corte dei re di Spagna e d’Inghilterra, nei palazzi cardinalizi, si distillavano erbe, si
preparavano oli e si trattavano metalli secondo metodi alchimistici, sia per fabbricare farmaci, sia per fare l’oro. E lo stesso accadeva in
Italia alla corte dei Medici e dei duchi di Savoia, dove Francesco I, o lo stesso Emanuele Filiberto, attendevano con le proprie mani, tra
fornelli e alambicchi, alle operazioni alchimistiche. Gli artisti non potevano rimanere estranei a tale movimento.
E poi la tecnica della
preparazione dei colori poneva allora la pittura in relazione con l'arte spagirica. Tuttavia c’è una complicazione piuttosto concreta:
l’alchimia non è stata univocamente interpretata nel suo scopo e nelle sue modalità. C’è la teoria che la interpreta come un’allegoria
di un processo spirituale o mentale interno all'uomo; c’è chi invece ritiene che sia esclusivamente un processo puramente chimico-metallurgico,
senza altre implicazioni; infine c’è infine chi ritiene siano valide contestualmente entrambe le modalità. Possiamo, tale riguardo, propendere
per la terza ipotesi e concordare con quanto afferma Mircea Elide nell’opera Arti del Metallo e dell’Alchimia:
Certamente le operazioni alchemiche non erano di natura simbolica: erano operazioni materiali, effettuate all'interno di laboratori, ma
perseguivano fini diversi da quelli della chimica. Il chimico pratica l'osservazione esatta dei fenomeni fisico-chimici e di esperienze
sistematiche, allo scopo di cogliere la struttura della materia; l'alchimista si sofferma piuttosto sulla "passione", la "morte" e l'"unione"
delle sostanze, in quanto agenti di trasmutazione della Materia (la Pietra Filosofale) e della vita umana (l'Elixir Vitae).
Quindi dobbiamo riferirci, quando i simboli siano sepolcri, ossa, crani o cadaveri alla fase alchemica operativa detta della "putrefazione".
Ciò ci viene convenientemente spiegato anche da Nicolas Flamel nel Libro delle figure geroglifiche:
Dunque questa nerezza e colori insegnano chiaramente che all'inizio la materia e il composto comincia a putrefarsi […].
E questa dissoluzione è chiamata dai Filosofi invidiosi Morte, Distruzione e Perdizione, perché le nature cambiano di forma; di qui sono uscite
tante allegorie su morti, tombe e sepolcri.
L'Arcadia è oggi una regione agricola e pastorale della Grecia, al centro del Peloponneso, ma simbolicamente deve essere correttamente intesa come un luogo ideale di vita amena, idillica e del tutto separata dalla realtà, come, appunto, nella favolosa e mitica regione greca dell'Arcadia. Ed in questo luogo diviene, per il principio dell’armonia dei contrari, un topos artistico letterario il tema della morte, a partire dal Seicento per poi permeare tutto il Settecento. E’ un papa ad inventare la figura simbolica, Giuseppe Rospigliosi, prima di diventare Clemente IX, ed è il pittore Guercino il primo a trattarne.
In un paesaggio agreste e montuoso, sotto un cielo ancora notturno ma in cui si comincia a scorgere il chiarore che precede l'alba, due personaggi, di cui sono visibili solo i busti, appoggiandosi a bastoni di diversa lunghezza scrutano meditabondi il simbolo per eccellenza della morte corporale:.
l'uno è più giovane, imberbe, a capo scoperto e vestito di una tunica bianca mentre l'altro è più anziano, barbuto, ed ha il capo coperto da un voluminoso berretto, rosso come la tunica che lo riveste e della quale si scorge in alcuni punti il risvolto bianco. Di fronte ad essi sta uno spezzone di muro diroccato che sorregge un grande teschio sulla cui calotta cranica è posato un moscone, mentre un topo si trova a contatto del lato destro della mascella. Su un alberello sovrastante e biforcuto, dal ramo superiore verde e dall'inferiore secco, sta un uccellino semiaddormentato. Nella parte frontale del pezzo di muratura, campeggia in maiuscole latine la famosa scritta “Et in Arcadia Ego”, anch’ io sono in Arcadia, una frase che funge da ricordo della morte come per i frati il ricordati che devi morire. Il quadro in questione è un olio su tela, eseguito pare intorno al 1618 dopo una breve visita dell'autore a Venezia, ed è oggi alla Galleria Nazionale D'Arte Antica di Palazzo Corsini in Roma. Perfettamente in linea con l’impostazione di Virgilio nelle Georgiche e nelle Bucoliche, i pittori ed i letterati del periodo concepirono l’Arcadia come rifugio nostalgico ove sarebbe ancora possibile il ritorno della mitica Età dell’Oro.
In questo contesto nasce il capolavoro del tema simbolico dell’Arcadia, con lo stesso titolo dell’opera del Guercino, “Et in Arcadia Ego”, dipinto tra il 1657 ed il 1659 da Poussin, conservato al Louvre di Parigi il quadro che col tempo genererà da solo una leggenda ed un genere letterario. Il pittore trasforma quello che era nel Guercino uno spezzone di muro in un vero e proprio sarcofago monumentale, sul quale sono immersi in profonda meditazione tre pastori, e non due come fa il Guercino, due giovani ed uno in età matura. Ad essi si aggiunge una donna, vestita secondo il modo della Grecia antica, che appare come nell’atto di svelare un enigma, forse il significato della frase incisa sul muro. L’ombra sul sarcofago di uno dei due giovani è un segno di vita, solo i morti e gli dei non hanno ombra è scritto nel Libro dei Morti degli antichi Egizi, come un segno di vita è la sparizione, rispetto al quadro del Guercino, del teschio. Sparisce quindi, tranne il sarcofago che non è di immediata evocazione del significato in oggetto, il simbolismo ed il richiamo esplicito della morte.
Ma allora come si può spiegare il senso del tema simbolico, tanto nella rappresentazione del Guercino che in quella di Poussin e quale può essere la giusta interpretazione della frase “Et in Arcadia Ego”? Se si vuole seguire un percorso grammaticale, e cioè l’interpretazione anagrammatica di un’altra frase nascosta, ci si allinea con quanti, appassionati di occultismo hanno fatto il successo dell’ipotesi formulata per la prima volta nel best-seller Il santo Graal di Baigent, Leigh e Lincoln e cioè credere che essa contenga un riferimento al fatto che Gesù Cristo sia sopravvissuto alla crocefissione per morire poi di morte naturale e venir sepolto da qualche parte nel Sud della Francia. Il successo di tale teoria ha scatenato nelle pacifiche campagne circostanti la cittadina francese di Rennes-le-Château una caccia al tesoro inutile e vana, ma ancora oggi ben lontana dalla fine. Così il parto anagrammatico è stato "I, TEGO ARCANA DEI", Vattene, custodisco i segreti di Dio.
Naturalmente a nulla vale per costoro che il risultato sia più oscuro della frase di partenza! Occorre riportare quindi il nostro esame in confini più aderenti alla realtà e non alle chimere. Siamo nella prima metà del '600 e quindi ancora nell’età d’oro dell’alchimia, praticata a tutti i livelli sociali. Scienziati, principi, monaci, preti e porporati, studiosi di scienze naturali, ciarlatani e illusi si davano a questo genere di ricerche e pubblicavano testi a riguardo. Nelle corti dell'imperatore d’Austria e dei re di Francia, alla corte dei re di Spagna e d’Inghilterra, nei palazzi cardinalizi, si distillavano erbe, si preparavano oli e si trattavano metalli secondo metodi alchimistici, sia per fabbricare farmaci, sia per fare l’oro. E lo stesso accadeva in Italia alla corte dei Medici e dei duchi di Savoia, dove Francesco I, o lo stesso Emanuele Filiberto, attendevano con le proprie mani, tra fornelli e alambicchi, alle operazioni alchimistiche. Gli artisti non potevano rimanere estranei a tale movimento.
E poi la tecnica della preparazione dei colori poneva allora la pittura in relazione con l'arte spagirica. Tuttavia c’è una complicazione piuttosto concreta: l’alchimia non è stata univocamente interpretata nel suo scopo e nelle sue modalità. C’è la teoria che la interpreta come un’allegoria di un processo spirituale o mentale interno all'uomo; c’è chi invece ritiene che sia esclusivamente un processo puramente chimico-metallurgico, senza altre implicazioni; infine c’è infine chi ritiene siano valide contestualmente entrambe le modalità. Possiamo, tale riguardo, propendere per la terza ipotesi e concordare con quanto afferma Mircea Elide nell’opera Arti del Metallo e dell’Alchimia:
Certamente le operazioni alchemiche non erano di natura simbolica: erano operazioni materiali, effettuate all'interno di laboratori, ma perseguivano fini diversi da quelli della chimica. Il chimico pratica l'osservazione esatta dei fenomeni fisico-chimici e di esperienze sistematiche, allo scopo di cogliere la struttura della materia; l'alchimista si sofferma piuttosto sulla "passione", la "morte" e l'"unione" delle sostanze, in quanto agenti di trasmutazione della Materia (la Pietra Filosofale) e della vita umana (l'Elixir Vitae).
Quindi dobbiamo riferirci, quando i simboli siano sepolcri, ossa, crani o cadaveri alla fase alchemica operativa detta della "putrefazione". Ciò ci viene convenientemente spiegato anche da Nicolas Flamel nel Libro delle figure geroglifiche:
Dunque questa nerezza e colori insegnano chiaramente che all'inizio la materia e il composto comincia a putrefarsi […].
E questa dissoluzione è chiamata dai Filosofi invidiosi Morte, Distruzione e Perdizione, perché le nature cambiano di forma; di qui sono uscite tante allegorie su morti, tombe e sepolcri.
La prova certa di tale riferimento è in un altro dipinto del Guercino, noto sotto il titolo di "Vanitas", oggi appartenente alla collezione Feigen di New York. In essa possiamo rilevare un libro chiuso che costituisce, in alchimia, un simbolo tradizionale della "materia mercuriale" allo stato grezzo, ossia appena uscito dalla miniera: tale accostamento è probabilmente legato alla struttura grossolanamente lamellare di tale minerale, tanto da esser denominato pure "terra foliata". Il libro è chiuso da sigilli spezzati o sciolti nel corso della lavorazione, finché esso, al termine, diviene aperto. Così noi vediamo, nel quadro, il libro ancora chiuso, ma di cui sono già stati sciolti i due lacci che lo chiudevano: a questo punto al di sopra di esso ben si colloca il teschio che simboleggia le scorie o "caput mortuum". La clessidra sul lato destro è un classico simbolo di Saturno, riguarda il fatto che le scorie della "prima fase" sono chiamate anche "Saturno o piombo dei filosofi".
Le due roselline in vaso, sulla sinistra, simboleggiano invece il prodotto finale dell'opera alchemica, cioè le due pietre filosofali "al bianco" e "al rosso": questa differenza è sottilmente rappresentata dal Guercino raffigurando una delle due roselline ancora parzialmente in boccio (pietra al bianco) e l'altra nel pieno della fioritura (pietra al rosso). Lo stesso simbolismo delle due rose possiamo vederlo nell’illustrazione premessa alla dodicesima e ultima chiave de Le dodici chiavi della filosofia di Basilio Valentino.
Il secondo vaso, sullo sfondo a destra, con fiori di vari colori, simboleggia appunto i colori che si susseguono nel corso dell'opera. Guercino non raffigura i fiori ancora radicati al terreno, bensì recisi dentro due vasetti di vetro trasparente. Ciò può sembrare scontato, ma non deve sfuggire come si tratti di un'indicazione assolutamente pertinente: a eccezione del nero, i colori si producono e passano nel vetro, ossia nel fluido salino incaricato di captare - durante la "terza opera" - la parte più pura delle materie messe in opera. Sarà proprio questo fluido a costituire il corpo cristallino del "rubino celeste" finale.
Infine l'indecifrabile cartiglio attaccato al medesimo vaso, in cui si può leggere soltanto la parola "nascitur", può essere, proprio come Et in Arcadia Ego, l'indice che il quadro contiene un messaggio incomprensibile ai più. L’esame volge al termine e ormai abbiamo sufficienti elementi per dare un significato compiuto al mistero della frase “Et in Arcadia Ego”. Ci troviamo ancora una volta in ambito rosicruciano ed il simbolo per eccellenza della confraternita verrà in nostro soccorso: il pellicano, emblema della carità.
Perché questo è il significato dell’allegoria contenuta nel quadro di Guercino: il grande cranio posato in primo piano sul frammento di muratura è il "caput mortuum" che l'artista, allo stesso modo e con lo stesso significato degli alchimisti del suo tempo, ci invita a fare oggetto di meditazione ed evoluzione spirituale. Esso si sostanzia nell'idea di carità: venire iniziati al mistero del "caput mortuum", delle scorie, significava che occorreva comprendere che al mondo non v'è nulla di così miserabile che, ricevendo un aiuto, non possa risorgere a nuova vita. Proprio Eliade ci spiega il rapporto tra l’iniziazione agli Antichi Misteri e l’alchimia:
Sappiamo che l'iniziazione ai Misteri consisteva, nella sua essenza, nel partecipare alla passione, alla morte e alla resurrezione di un dio. Noi ignoriamo le modalità di questa partecipazione, ma si può congetturare che le sofferenze, la morte e la resurrezione del dio, conosciute dal neofita nella forma del mito, della storia esemplare, gli venissero comunicate, durante l'iniziazione, in maniera sperimentale. Il senso e la finalità dei Misteri erano la trasmutazione dell'uomo: attraverso l'esperienza della morte e della resurrezione iniziatiche, il mito mutava di regime ontologico (diveniva immortale). Ora, lo scenario drammatico delle sofferenze, della morte e della resurrezione della Materia è attestato fin dall'inizio nella letteratura alchemica greco-egizia.
Ed ecco emergere anche il significato della sparizione del teschio nell’opera di Poussin: l’altro senso del pellicano è la resurrezione, la palingenesi, poiché il pellicano resuscita e non nutre solamente i suoi piccoli col suo sangue come correttamente spiega Leonardo nel suo Bestiario. Da questa considerazione discende l’altro occulto significato della frase “Et in Arcadia Ego” nel quadro di Poussin: anche io in Arcadia, perché tutti possono, tramite il cammino iniziatico resuscitare e tornare nella mitica età dell’oro, in uno stato di grazia solo illusoriamente smarrito, come suggestivamente suggerisce Michele Maier nella Atalanta Fugiens, Emblema L.
“Draco mulierem, & haec illum interimit, simulque sanguine perfunduntur..”
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